lunedì 9 agosto 2010

E mentre moriva loro parlavano del modulo AD

Lei all'improvviso cambiò stanza, lì lasciò tutti fermi davanti ad uno di quei corpicini trafitti da cateteri e vie. Inermi, addormentati, immersi in un Vuoto di cui ignoro i sogni, tubi e sonde di ogni genere li attraversavano, esili ragni, adagiati in una nonvita scandita da dei beep. Io li guardavo, mi chiedevo, perché tanta bravura, tanta conoscenza, nel fronteggiare ciò che loro stessi definivano cadavere, il sottile confine tra speranza nel miracolo e accanimento terapeutico, esercizi di stile, atmosfere asettiche, pattine e cuffiette, formiche che si affollano, corrono, guardano, calcolano attorno al grande mistero della vita, quattro corpi sospesi a mezzaria avvolti in tecnologiche termoculle, futuristica evoluzione di bolle di sapone.

Loro aggiustavano gamma e millilitri di questo e di quello; io, nel mezzo, tentavo di mantenere quel distaccato punto di vista sul mondo in cui ricerco la tridimensionalità.
Giunse una musichetta, leggera, sul lettino di M. girava ritmico un giocattolino appeso da nonsochi - del resto lui i genitori, non li aveva visti mai. Io M. avevo provato a conoscerlo, gli avevo stretto la manina in un giorno di maggiore entusiasmo, lo accarezzavo non riuscendo a non guardare le sue piaghe da decubito, gli sussurravo qualcosa. Lui si girò, aprì gli occhi, pensavo mi stesse fissando, sorridevo, trasmettere calore. Il suo sguardo mi trapassò, revulsione oculare, nistagmo, capii che davanti ai suoi occhi c'era un vuoto profondo ed insensibile.

Lo avevo visto sorridere, una volta. Cosa sorridi, che non c'è niente da sorridere, gli avevano risposto. Ed io mi chiedevo dove fossero quegli angeli in camice bianco di cui avevo letto, mi domandavo se avessero protetto i loro cuori dietro corazze inespugnabili o se non fosse piuttosto quella la realtà.

Tutti loro entrarono insieme, lei lo accarezzava, quella musichetta dolce aleggiava ancora, l'infermiere gli teneva la manina con delicatezza. Cosa stai facendo qui, hai una faccia triste, le disse qualcuno a cui lei doveva rispondere. Lo sto accompagnando, rispondeva lei, forse sarebbe meglio avere del silenzio. Loro ridevano, commentavano, sindacavano sulle dosi di sedativo che lei gli aveva somministrato perché non sentisse più il dolore, ora che il cuore di M. aveva smesso di battere, ora che non c'era più niente da fare. E si era fatto anche troppo, mi gridavo, che quella non era possibile definirla vita, venire al mondo per trovarsi soli e senza respiro su una termoculla, dipendenti da un respiratore, mentre giornalmente orde di sconosciuti manipolano il tuo corpo, lo bucano, prelevano, sistemano, mantengono in range i tuoi parametri vitali perché questo è ciò che si deve fare nell'attesa di una svolta, improbabile miracolo o lento ed inesorabile decesso.

Lei continuava a guardarlo ignorando le risate, i commenti su questo o quell'altro collega che aveva modificato le dosi, e si, loro ci avrebbero giurato, che il cuore di M avrebbe ripreso a battere, lo aveva già fatto, per attaccamento alla vita o per routine.
Avete visto, sussurrava lei, M. era morto, se si può dire che vivo lo sia mai stato.

Eppure io mi stringevo le dita fino a farle sbiancare, perché in quella sua nonvita avrà comunque percepito un sentimento, avrà desiderato una stilla di calore, una coccola, un sorriso, una carezza, un bacio. Ed era strano andarsene così, con la musichetta sovrastata dai beep, dagli acidi commenti, dalle interferenze, dai capannelli, da occhi voyeristici tra cui annovero anche i miei.
Una mano che lo accarezzava subito ritratta, una stretta sulle dita, per accompagnarti in Nessundove, mentre attorno speculavano su improbabili Aldilà.

Mi dispiace M, non sono riuscito nemmeno a piangere, in quella calca disumana nemmeno io, ospite sconosciuto, sono riuscito a sentirmi libero di dirti ciao.
E mentre si affievoliva l'eco dell'elettrocardiogramma, loro parlavano del tuo modulo AD.

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